A differenza di altri paesi, come l’Irlanda e l’Inghilterra, in Italia esiste un genere molto ingombrante che è il cantautorato. Sto parlando di De Andrè, Dalla, Guccini, De Gregori e del cantautorato moderno, che ha preso il nome di “indie”. Le particolarità di questo genere sono, a mio avviso, la grande attenzione verso i testi e -in generale- un modo di cantare e una musicalità votati a servizio del testo, e non fini a se stessi come in gran parte del resto della musica. Ecco allora che un genere come il folk, basato sul mettere in musica testi solitamente di origine popolare e su una certa attenzione puramente musicale, fatica a prendere piede in Italia.

Certo gli esempi di gruppi folk italiani esistono, ma si contano su una mano. Vanno sicuramente citati i Modena City Ramblers, gruppo arrivato alla fama tra anni ’90 e i inizio anni 2000. Anche se, questo va detto, il loro folk è fortemente ispirato al folk irlandese e, in certi album, alle sonorità sudamericane e mediterranee. Ci sono alcuni gruppi e solisti emergenti, come il giovane Mr. Alboh con il suo stile alla Bon Iver. Ci sono Mannarino e Max Gazzè, ma qui ci addentriamo a mio avviso già nella sfera del cantautorato italiano.

E allora possiamo concludere che in Italia il folk si è fermato, o meglio si è trasformato. L’eredità musicale del meridione e del settentrione, lasciata dai neomelodici e i compositori di mazurche, è rimasta chiusa nelle sale da ballo. Mentre i poeti, o a volte solo presunti tali, che si fanno chiamare cantautori hanno preso il sopravvento.

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